Benvenuti!

La piccola bottega di universi paralleli non vuole essere altro che il posto dove dare sfogo alla fantasia e alle visioni che la mente, a volte, scaturisce.
Personalmente scrivo storie, favole per i piccoli e per i meno giovani.
Sentitevi a casa vostra e curiosate pure ovunque; nel retro bottega troverete recensioni di film, libri, ma anche video e link sul mondo della fantascienza e dell'horror.

A chi abbia la volontà di sostare e leggermi, va il mio ringraziamento.
A chi vorrà aggiungere commenti o suggerimenti, la mia amicizia.

A tutti quanti il mio più cordiale benvenuto.

venerdì 29 ottobre 2010

Il marchio blasfemo

Niente, per un forestiero, è più triste di Londra immersa nella nebbia autunnale. 

Una nebbia pesante e fitta che si appiccica al mantello insinuandosi nei vestiti sotto e più in profondità fino a raggiungere l’anima; un senso d’impotenza, misto a timore riverenziale verso una cosa tanto grande d’avvolgere una città intera, costringe la vitalità delle persone a nascondersi e trovare riparo in qualche luogo inaccessibile del cuore. Solo i londinesi sembrano immuni a questa nostalgia: la nebbia scivola loro addosso senza sfiorarli nell’umore, sempre posato e altezzoso, mentre continuano a vivere tracannando birra scura e fumando tabacco aromatizzato al brandy. Gente civile, certamente, ma che porta dentro frammenti di un’atavica società barbara; lo si nota dal loro svolgere, in modo spartano e privo d’ogni motivazione più profonda, le azioni quotidiane. Mangiano per nutrirsi, lavorano per vivere, bevono per alleggerirsi la mente. 

Per un italiano è diverso. Abituato a dare un senso di ritualità ai gesti della giornata, questi hanno perso il grezzo senso primitivo. Mangiare diventa una cerimonia di socializzazione, fumare la pipa diventa un momento di riflessione e, una buona bottiglia di vino, non è tale se non la si condivide, con discussioni più o meno profonde, assieme ad un buon amico.


Per oltre sei mesi, Londra, era stata una ottima opportunità di lavoro per Michele Beccaria. 

Da buon piemontese, vivere in Inghilterra era una forzatura contro natura: rapporti con le persone, ritmi di lavoro e abitudini completamente differenti dalle sue. L’essere italiano, poi, non aiutava affatto l’integrazione con persone conservatrici ed egocentriche come gli inglesi. Isolato, suo malgrado, dalla vita mondana, si era buttato capofitto nel suo lavoro di traduttore nel British Museum. Solo tra le mura del museo, infatti, Michele trovava persone che lo stimavano e lo apprezzavano per come svolgeva le sue mansioni di analizzare e tradurre i moltissimi reperti egiziani, scoperti e importati in Inghilterra quasi un secolo prima, dall’illustrissimo connazionale Giovanni Belzoni. Un mestiere certosino e metodico il suo, che solo un buon conoscitore delle civiltà e delle lingue antiche, assodate da una lunga gavetta presso il museo delle antichità egizie di Torino, poteva compiere.

Arrivato sul finire della primavera, aveva trascorso la maggior parte del tempo rinchiuso nel suo laboratorio, tra scaffali di manufatti polverosi e persone alquanto noiose. Ma ora che il suo periodo di collaborazione con la Royal Archeological Institute si stava concludendo, sentiva d'avere dedicato troppo tempo al lavoro e troppo poco al conoscere la City. Così ultimamente si concedeva, nel tempo libero, lunghe passeggiate tra le vie e i parchi di una Londra che, scoprì, era unica per attrazioni turistiche e meraviglie architettoniche. Durante le sue camminate solitarie, pensava spesso alla moglie Nora e al figlioletto David rimasti a casa, nei sobborghi di Torino, per tutti i lunghi mesi del suo soggiorno a Londra; tanto gli mancavano e tanto avrebbe voluto rivederli, che scriveva loro una lettera ogni notte prima di dormire, e la spediva l’indomani. Immaginava spesso come David si sarebbe stupito nel vedere, durante il cambio della guardia, tanti soldati coi copricapo di pelliccia d’orso e la giubba rossa, o la meraviglia nei suoi occhi nel vedere il Tower Bridge in funzione coi suoi sbuffi di fumo nero e il cigolare degli argani. Sognava di far l’amore con Nora, di odorare la sua pelle sensuale e profumata, di baciare le sue labbra… ma anche di raccontarle il suo soggiorno, a dir il vero un po’ noioso, e i progressi che aveva contribuito a realizzare col suo operato. 



Una sera di ottobre, prossimo al suo ritorno in patria, stava compiendo una lunga camminata immerso nella nebbia inglese; sognava la sua casa immersa nelle campagne collinose e nei radi boschi di faggio e, mentre ogni viale di Londra gli ricordava le larghe vie del centro di Torino o il Buckingham Palace gli evocava il palazzo reale dei Savoia, fu distratto dai suoi pensieri da una piccola bottega di un rigattiere. 
Il negozio, davvero minuto, era come schiacciato dai palazzi a fianco; privo di qualsiasi esposizione o vetrina, aveva solo l’ingresso simile a quello di una delle tante case inglesi. Attirò la sua attenzione l’insegna in legno, anch’essa minuta, sulla quale era scritto in caratteri gotici: “Dark Shop”. 

Michele rimase per un po’ lì impalato, a contemplare quell’insegna e quella porta entrambe rovinate dal tempo e dallo smog. Poi, divertito dalla singolare iscrizione, decise d’entrare.

Chiusosi la porta alle spalle, e non vedendo nessuno al bancone, si tolse il cappello è salutò a voce alta: 

“Buonasera… c’è nessuno? Volevo solo dare un’occhiata in negozio: cercavo dei souvenir di Londra da portare a…”, ma interruppe la frase accorgendosi che nessuno lo stava ad ascoltare. Pensando che il bottegaio fosse sul retro o fosse uscito qualche minuto lasciando il negozio incustodito, nell’attesa che tornasse, si mise a curiosare tra la mercanzia in cerca di qualche oggetto interessante. 

L’aria nella bottega era densa e dolciastra, impregnata dall’odore dell’incenso che, in rivoli di fumo grigio, saliva lento da un braciere a lato della porta. L’illuminazione delle poche lampade a olio, rendeva difficile identificare i molti oggetti disposti disordinatamente su tavole improvvisate a banchi per l’esposizione. Eppure lì c’era davvero di tutto: teche con farfalle ed altri insetti morti esposti sotto vetro, vecchi cappelli laceri e ombrelli riparati alla meno peggio, lampade sbeccate e bugie in rame prive di candela, servizi da tè incompleti e pile di piatti decorati. Tra tutti gli articoli esposti, lo sguardo si posò su un libro dalla copertina rossa. Michele, visto che nella penombra non riusciva a distinguerne i dettagli o il titolo, decise di prenderlo in mano, facendo attenzione a non rovesciare una piccola colonna di tazze lì vicina. 

Doveva essere antico come volume, per la presenza dei nervi sulla costa della coperta in cuoio. Non c’era titolo ma, impresso esternamente, un marchio che raffigurava un blasfemia. Quel simbolo empio mise alquanto in imbarazzo Michele, fervido credente cristiano, ma lo incuriosì anche a procedere con lo sfogliare il libro. Le carte di guardia, immacolate da nessun segno d’usura, introducevano un fitto scritto onciale perlopiù in greco e in latino. Sporadici disegni esplicavano i contenuti del codice, in un turbinio di immagini macabre e sacrileghe. Alcune delle pagine iniziali erano strappate, come altre in fondo interrompevano drasticamente l’opera. Michele si soffermò a contemplare una rappresentazione di un omicidio, dove alla vittima veniva reciso il collo con un grosso coltello e il sangue che ne usciva veniva, grottescamente, raccolto in un bacile. Avvertì una presenza alle spalle. Si voltò di scatto nel vedere un'ombra di persona proiettata da una lampada. Appoggiata alla tavola delle teche con le farfalle, la figura lo stava scrutando da chissà quanto. Cercò di distinguerne il volto, ma la luce era talmente scarsa e posizionata sfavorevolmente che riuscì solo ad identificare dei tratti maschili.

“Non ho visto nessuno in bottega…” cercò di scusarsi Michele, “…così, nell’attesa del proprietario, mi sono messo a guardare la merce esposta.” disse con tono d’imbarazzo. Libro estremamente affascinante, non trova?” replicò incurante delle scuse dell’avventore l’uomo misterioso protetto dall’oscurità; poi, aspirando dalla pipa e tossendo vistosamente, aggiunse: “E’ un pezzo raro, di cui non è chiaro chi sia l’autore, ma ciò aggiunge mistero al suo fascino.




Michele, richiuso il libro tra le mani, fece un passo in direzione dello sconosciuto, nel tentativo di carpirne le fisionomie, ma fu anticipato da costui che, nell’uscire dall’ombra, gli porgeva la mano nel presentarsi: “Buonasera, sono Mr. Harpey; proprietario della bottega”.
Mr. Harpey, ora si poteva distinguerne le fattezze, era un signore calvo e tarchiato, ma per nulla sgradevole d’aspetto. Nel suo lungo soprabito scuro s’appoggiava ad un bastone da passeggio; col viso tondeggiante e i profondi occhi neri, aveva lo sguardo scaltro del venditore che, privo di scrupoli, sarebbe riuscito a vendere qualunque cosa a chiunque avesse avuto la triste sorte di entrare nel suo negozio.
“Piacere: Michele Beccaria” replicò nello stringergli la mano. “Italiano, interessante… adoro il vostro paese. In certi borghi il tempo sembra essersi fermato, rimanendo inalterati come mille anni fa. Mi dica, Mr. Beccaria, ha trovato qualcosa di suo gradimento?
“Beh, in effetti questo libro è alquanto singolare: per l’età che potrebbe avere e per la cura con cui è stato custodito… se non fosse per le pagine strappate…” tentò di sminuirne il valore, prevedendo una dibattuta contrattazione.
Oh, quelle… Il libro lo possiedo da molti anni, acquisito dallo sgombero di un vecchio locale del centro. I proprietari erano scomparsi senza lasciare traccia; le pagine mancanti non le ho mai viste. La parte iniziale presumo riportasse il titolo del codice, l’ex libris e l’autore dell’opera, nonché l’amanuense che ha scritto l’apografo, ma, come dicevo, non ho mai potuto appurarlo…
“Oh, dunque è una copia!”, cercò di apparire stupito Michele, nel tentativo di svilire la sicurezza ostentata dal venditore. 
Non s’intende molto di libri, vero?” disse ancora Harpey senza attendere risposta: “Libri originali di quell’epoca sono eccezioni uniche; i codici giunti fino al XIX secolo sono esclusivamente copie di amanuensi, perlopiù religiosi”.
“Come può affermare che un religioso si sia preso la cura di copiare un volume riportando sulla copertina una simile blasfemia. Un codice che parla di Satana e culti violenti poi… sarebbe stato censurato e arso nel fuoco assieme al malcapitato copista!”. La frase uscì dalla bocca di Michele come risposta ad un’offesa personale subita; sembrava quasi la sua anima non sopportasse l’ulteriore eresia di un simile manoscritto redatto da un uomo consacrato. 
Le sue osservazioni sono assennate, non ne dubito, ma sono un rigattiere, non uno storico.” 
Michele abbassò il capo, cosciente che aveva alzato troppo la voce in un arrogante atteggiamento aggressivo: “Mi scusi, non era mia intenzione…”. 
Lo sguardo si posò nuovamente su quel libro. La sua mente venne rapita dalla copertina rosso fuoco che contornava quel simbolo blasfemo. Sebbene contro ogni pudicizia e morale, da sempre sue regole di vita e pensiero, quel marchio contro Dio lo incuriosiva e lo eccitava. Si sentì sconvolto nel provare piacere fisico; si sentì leggero nel desiderare di possedere quel codice che, offendendo il suo credo nell’essere contro Dio, dava sfogo e vita ad una parte irrazionale di sé che non aveva mai creduto di possedere. Una parte a lungo celata dalle imposte regole sociali e dai dogmi della moralità.
“Quanto costa?” furono le parole che fuggirono incontrollate dalla sua bocca. “E’ valutato duecento sterline, ma è molto tempo che lo possiedo. Può essere suo per sessanta.” Confermò con decisione Mr. Harpey.
“Lo compro” disse Michele sorpreso da quelle sue stesse parole.


Il giorno seguente, Michele, mostrò il codice ad un collega della biblioteca del British Museum. A dire il vero non fu affatto meravigliato quando Henry, restauratore di libri antichi, stimò che il codice fosse stato scritto recentemente.

“Ottima fattura, non c’è che dire…” commentò Henry, “ma non ci sono segni di macchie d’inchiostro, normali nei libri manoscritti, ne di qualsiasi forma d’usura o del tempo. Se fosse autentico inoltre, sembrerebbe scritto da più amanuensi in epoche diverse. Oltre alla prima parte in onciale, ci sono pagine riempite in scrittura beneventana, nelle ultime pagine rimaste anche dei frammenti in gotico… epoche troppo lontane nel tempo e sviluppatesi in zone molto distanti tra loro. L’argomento trattato poi! Non ho riscontro di altri codici, anche esoterici, che trattino l’evocazione del diavolo in forme tanto violente e orripilanti. No, mio caro, si tratta d’uno scherzo di qualche mente insana, anche se non priva di talento. Dunque, mio caro, questo volume è un falso e, per sessanta sterline, direi che l’affare l’ha fatto chi te l’ha venduto!”. Michele ascoltò senza ribattere. Era certo che Henry, dall’alto della sua professionalità, fosse nel giusto. Personalmente quel libro non l’aveva convinto fin dall’inizio e, col senno di poi, non riusciva a capacitarsi della decisione di acquistarlo a quel prezzo. Forse aveva sottovalutato le abilità di negoziazione di Harpey, o forse erano state le luci scarse e l’aria impregnata d’incenso ad assopirgli sensi e volontà, così da permettere il raggiro. Ora, alla luce del giorno, quel libro non esercitava su di lui la benché minima attrazione; era diventato solo la prova della sua ingenuità, reperto di una truffa ai suoi danni. Fu così che, la sera stessa, decise di tornare da Mr.Harpey per restituirgli il codice e riavere il proprio denaro.




Le ampie strade, stranamente desolate, risuonavano sotto il suo passo: duro cuoio di stivali sui ciottoli del selciato. L’illuminazione delle fiammelle tremolanti sui lampioni, diffusa dalla leggera nebbiolina autunnale, creava giochi d’ombre animate simili a spiriti tormentati e silenziosi. Le ombre formatesi ad ogni angolo, erano nascondigli perfetti per rapinatori e assassini. Intimorito dalla lugubre atmosfera, Michele, faticava a proseguire ma, prossimo nel raggiungere la bottega, cercò di pensare a Nora e David per farsi coraggio. Udì in lontananza lo sferragliare di una carrozza le cui ruote, sobbalzando sui ciottoli, riempivano il silenzio di vita e il suo cuore di speranza. 

“Dovrebbe essere qui, tra quei due palazzi alti…” pensò ad alta voce, “lì nel mezzo c’era il Dark shop! Ed ora c’è solo un muro senza alcuna porta e insegna! Possibile mi stia sbagliando? Ricordo la via, i palazzi e le case laggiù, però la bottega non c’è... Ehi, ferma!” agitando le braccia, intimò d’arrestarsi alla carrozza ormai sopraggiunta alle spalle. Il conducente strattonando le briglia ordinò, con voce poderosa e sicura, ai cavalli di fermarsi; questi, mansueti, ubbidirono nitrendo. Nel cercare lumi sull’insolita sparizione del negozio, Michele fu sconvolto dalle informazioni del cocchiere il quale, giurava, di non aver mai notato altro che la vuota parete tra quei due palazzi; una bottega non gli sarebbe certo sfuggita per ben vent’anni di servizio su una strada che percorreva ogni giorno. Perplesso e stupito, Michele tornò ai suoi alloggi; preparò le valigie per il ritorno a casa, senza pensare oltre ai bizzarri eventi di quella sera. 

Il viaggio di qualche giorno, fu piacevolmente reso breve dall’aspettativa di rincontrare la moglie e il figlio. Pensava al pranzo che avrebbe consumato in famiglia nel giorno d’ognissanti, l’indomani del suo arrivo. Il treno sbuffava vivace nel lasciarsi le Alpi marittime alle spalle, e il suo cuore si rallegrò d’esser nuovamente in patria.

L’incontro nella stazione di Torino: i lunghi baci con Nora e i tanti abbracci di David scandirono la fine del periodo lavorativo lontano. Quella sera riscoprì i piaceri della famiglia. La cena assieme, i racconti delle sue esperienze davanti al caminetto acceso, il rimboccare le coperte e il bacio della buonanotte al figlioletto e, poi, il far l’amore con Nora. Fino a tardi rimase a guardarla mentre dormiva; si sentì riempire il cuore mentre le accarezzava i capelli morbidi, o ne percepiva il leggero respiro e il profumo del corpo. S’addormentò con dolcezza al suo fianco, finalmente a casa.




Una lama di luce, entrando dalle fessure dello scuro chiuso, lo svegliò fastidiosamente. Rimase coricato, intorpidito e in preda ad un atroce mal di testa. 

I sensi lentamente si destarono; allora percepì quello sgradevole lezzo nell’aria. 

Era un odore nauseante e dolciastro. Nel cercare di scansare quel fendente di sole che entrava di prepotenza nella stanza, finendogli dritto sul viso, si voltò di lato e, ad occhi socchiusi, vide i dolci occhi di Nora spalancati e il suo viso imbrattato di sangue. A quella visione macabra sobbalzò in piedi vicino al letto, urlando di terrore. 

Le lenzuola e le coperte erano inzuppate di sangue vermiglio che, lentamente, aveva cominciato a gocciolare per terra raccogliendosi in piccole pozze maleodoranti. 

Michele fu preso dal panico. Scosse la moglie per le braccia, gridando il suo nome con voce rotta e le lacrime incontrollate che gli annebbiavano la vista. Il capo di lei si piegò all’indietro, aprendo un lungo solco nero sulla gola. Rabbrividendo si ritrasse, lasciando il corpo di lei cadere inerte sul letto. 

Si guardò attorno, come per scovare il senno che, dopo la visione orribile dello scempio della propria amata, stava inesorabilmente perdendo. 

Attorno trovò solo follia. Si voltò con le mani sugli occhi, per allontanare l’immagine di lei, morta in un giaciglio di sangue; incrociò il proprio sguardo che, tra le dita spalancate, lo fissava riflesso sullo specchio dell’armadio. Gli occhi erano fuori dalle orbite. Le dita lentamente scivolarono dagli occhi alle guance dove, crollando poi con le braccia lungo i fianchi, dipinsero lunghi solchi scarlatti. La camicia da notte era cosparsa di macchie con forme e dimensioni diverse; le mani e il viso coperti interamenti di sangue. 

Nella penombra della stanza, rischiarata dalla sola luce che penetrava dalle fessure nelle imposte, scorse nuovamente il corpo immobile di Nora riflesso nello specchio e, spostando lo sguardo, notò sul proprio comodino il libro rosso. 

Corse ad afferrarlo per cercare di comprendere come fosse giunto fin lì, avendolo lasciato chiuso nelle valigie ancora da disfare dopo il viaggio. Nuovamente si fermò, urtando con il piede un lungo coltello posato per terra. I pensieri corsero inarrestabili nella sua testa, nel turbinio di visioni macabre che ricordava del libro. Una voce recitava salmi demoniaci e blasfemi nelle sue orecchie, quelle evocazioni latine che aveva letto in quel libro maledetto. La testa gli girava in un carosello di sentimenti, sangue, orrore, lacrime, Nora… 

Un solo preciso pensiero arrestò la folata di immagini che gli travolgeva la mente: David. 

Imboccò la porta di corsa, e attraversò i pochi metri dalla cameretta del figlio. La porta era aperta e da questa usciva un sentiero di gocce e impronte di sangue che arrivavano fino alla camera matrimoniale.

Le bianche lenzuola buttate in mezzo alla stanza coprivano una pozza di sangue rappreso. 

I biondi capelli inzaccherati di sangue raggrumato. Il volto pallido di un giovane cadavere con gli occhi infossati e la gola tagliata. Michele non riuscì a reggere a tanto orrore e, sussurrando il nome del figlioletto, cadde svenuto sul pavimento.
Poco dopo rinvenne: lucido, determinato. 
Il dolore lo aveva sopraffatto, ma ora la cruda razionalità aveva il sopravvento sui sentimenti e riusciva a focalizzare la situazione. Per scartare ogni ipotesi d’intrusione in casa da parte di un estraneo che potesse aver assassinato i suoi cari, controllò porte e finestre: tutte chiuse dall’interno. Ispezionò le stanze e la cantina in cerca di eventuali passaggi dall’esterno o nascondigli che l’assassino potesse aver sfruttato: non ne trovò. Era lui l’assassino. Le impronte lasciate nel sangue sul pavimento erano le sue. Inspiegabilmente aveva ucciso nel sonno le uniche persone al mondo che amava. Non poteva che essere stato lui. Mentre tutta la vita gli crollava sulle spalle, troppo fragili per reggere la realtà dei fatti, si lavò sul catino in camera il viso e le mani. Doveva mantenere il controllo. Doveva mantenere l’apparente normalità per non insospettire il vicinato che, seppur esiguo, si sarebbe potuto accorgere di qualcosa d’anormale. Aprì le finestre. Trascinò i cadaveri giù in cantina. Ripulì le stanze. Doveva usare la massima precauzione nei movimenti: un suo gesto sbagliato o uno sguardo indiscreto di un vicino curioso, e poteva dire addio agli studi e alla carriera. Amava Nora. Amava David. Ma ancor più amava il suo lavoro. Ecco perché era partito da casa per lavorare a Londra. Ecco cosa avrebbe fatto una volta sbarazzatosi dei corpi: sarebbe ripartito. Gli esperti in lingue antiche sono preziosi, e non facili a trovarsi. La sua passione, per la quale aveva tanto duramente studiato, non poteva finire con quell’inconveniente; anche se questo aveva due nomi: Nora e David. Doveva agire metodicamente, scrupolosamente; come sul lavoro quando si analizza un testo: nessun particolare deve sfuggire. Gli esperti si differenziano dai dilettanti per la cura dei particolari; così nelle traduzioni come nella vita. 
L’organizzazione di ciò che doveva compiere, gli procurava un piacere istintivo, spirituale. 



Sceso in cantina fece a pezzi i corpi; non era più Nora, solo carne e ossa. Non era più David, solo minuscoli pezzi di arti e viscere con cui riempire un sacco. 

Il momento era favorevole. Tutto il vicinato si sarebbe recato alla messa di mezzogiorno per commemorare i santi. Il campanile della chiesa, distante qualche chilometro, già suonava a festa irrompendo, coi rintocchi, nelle campagne e sulle colline attorno. Domani avrebbe avuto due morti in più da ricordare, ma oggi doveva pensare a se stesso e al suo futuro. Caricò i sacchi coi resti umani su una carriola, e iniziò ad arrampicarsi sulla collinetta dietro casa.

Vide un vecchio, coperto da un lungo pastrano scuro, scendere. Incrociandolo gli parve di riconoscere il volto di un vicino che, probabilmente, tornava dopo aver ispezionato i campi oltre il crinale. Aveva il volto grassoccio con le gote rosse e un bastone in mano per sorreggersi. Aspirando dalla pipa, posò per un attimo lo sguardo sulla carriola; poi salutò cortesemente con un sorriso. Michele, senza accorgersi di quegli occhi scuri da venditore privo di scrupoli, rispose al saluto con decisione: non era momento per gli imbarazzi, non era il momento delle paranoie sulla possibilità d’essere scoperto. Diede solo una rapida e rassicurante occhiata alle spalle: il vecchio continuava a scendere senza voltarsi.

Poco lontano c’era un porcile. Un grande recinto dove pascolavano nel fango grassi maiali. Quando aveva acquistato la casa, non apprezzava la puzzolente vicinanza dei maiali; ora si stava ricredendo. I maiali non disprezzano nulla che possano mangiare. I maiali non hanno vincoli morali. Con le loro ganasce robuste tritano le ossa e divorano la carne. Non avrebbero lasciato traccia dei due corpi. Ecco perché aveva comprato quella casa vicino alla porcilaia. Tutto nella vita ha un suo scopo. Tutto è scritto. L’ispirazione è la vita. Michele si sentì guidato, nelle azioni, da qualcuno al sopra di lui, superiore a Nora o David, superiore a Dio stesso. Gli apparve nella mente l’immagine del simbolo blasfemo marchiato a fuoco sul cuoio. Ora sapeva ciò che doveva fare. Non pensare, ma seguire l’ispirazione che scendeva dal cielo sul suo capo, guidandolo. Nessun vincolo morale. Ora era come Dio.


Ma l’anima, sebbene perso il senno della mente nulla possa sull’operato di una persona, arriva inesorabile a tormentarne la coscienza e, quando la razionalità torna coi rimorsi dei crimini commessi, scatena la follia più pura come castigo per il male compiuto.





Al termine del giorno si stese sul letto, candela accesa. Dalla porta entrava la luce delle ultime braci ardenti nel caminetto. L’interferenza del fuoco della cucina con la fiamma flebile della candela, proiettava sul soffitto e sulle pareti veloci spettri di luce a rincorrersi nel disegnare contorni che, la mente di Michele interpretava. Nora. Il suo amore. David e i suoi teneri abbracci. Il simbolo blasfemo. Si voltò a controllare. Il libro rosso era al suo fianco, sul comodino. Un alito di vento gelido e improvviso, forse penetrato delle fessure delle imposte, gli raggelò il cuore. La fiamma della candela si spense, intrecciando nell’oscurità un sottile nastro di fumo, e permeando la stanza dell’odore pungente dello stoppino bruciato. 

Oscurità. Solo il rosso delle braci incandescenti nel caminetto in cucina, sfumavano il buio di un rosso acceso. Davanti a lui un volto, indistinguibile nelle tenebre; il contorno di una figura disumana. 

“Chi sei?” chiese spaventato Michele. Una voce proruppe fra le tenebre, lugubre e profonda. “Colui che cercavi”.

“Chi… cosa vuoi?” 

Tu hai chiamato la luce nascosta dietro le tenebre versando sangue

Michele, terrorizzato, non riusciva a controllare il tremore che gli pervadeva tutto il corpo. Rimase in silenzio, molto tempo, osservando la figura che si parava dinnanzi il suo sguardo incredulo. Alla fine ruppe il silenzio: “Io non ti ho chiamato… perché sei venuto qui?”.

Ero già qui” disse la voce cupa “Ero già te”.

Michele si mise seduto nel cercare di vedere il volto dell’oscura presenza, ma non vide che un’ombra vaga nelle tenebre.

“Ho letto quel codice. Ho evocato il male. Sei arrivato tu…” 

La paura stava scemando in Michele e, al suo posto si stava formando la consapevolezza della reale responsabilità degli avvenimenti. In lui cresceva l’ira per l’impotenza di cambiare ciò che aveva compiuto. 

“…sei stato tu…” disse minaccioso Michele “…sei stato tu ad ucciderli, maledetto. Mi hai costretto ad ucciderli per la tua sete di malvagità e violenza! Tu mi hai guidato nel sonno e hai tagliato le loro gole!...”. La figura rimase impassibile, poi replicò: “No.
Dalle braci ardenti del caminetto uscì una fiammella, ultimo sprazzo di vita di un fuoco non rassegnato a spegnersi; da quella luce, Michele vide allo specchio le immagini del suo efferato omicidio. Vide se stesso, leggere il libro blasfemo, alzarsi dal letto e prendere dalla cucina il coltello. Vide se stesso uccidere ed esaltarsi nel sangue di Nora. Vide se stesso avvicinarsi al lettino di David, buttare all’aria le lenzuola e poi accarezzarlo. Vide la sua carezza, allo svegliarsi del bimbo, trasformarsi in un pugno stretto tra i capelli biondi. Vide terrore e lacrime negli occhi innocenti. Poi, la stanza, piombò nuovamente nel buio. L’ultima fiammella nel caminetto si spense.
“No… non è così, non sono stato io. Tu… maledetto! Non ero cosciente… Tu li hai uccisi… Tu mi hai usato!” Urlò, con voce rotta, Michele colmo di ira. L’ombra rimase un attimo in silenzio, immobile, poi con voce possente:
No. Io ho fornito l’alternativa: la libertà. Se non credi alle mie parole, chiedi a te stesso perché hai infierito sui loro corpi privi di vita. Tu hai scelto me
L’ira si fuse con la consapevolezza che, quell’essere diabolico, diceva il vero. La verità travolse la mente distorta di Michele che, nell’incapacità di contenere un simile raccapriccio, eruttò bestemmie e maledizioni; le stesse elencate in ordinato onciale del libro appoggiato vicino al letto. Così urlando, spiccò un balzo verso l’ombra oscura afferrandola alla gola. Cercò di stringere, con le mani, più forte gli fosse possibile. Ma per quanto forte stringesse, l’ombra rimaneva impassibile. Sentiva l’essere difendersi, cingendogli a sua volta il collo. La stretta di quel demonio era potente e inesorabile. 
Michele si sentì soffocare. Alcune lacrime di rabbia e rancore gli scesero dal volto deformato dallo sforzo e dal dolore. Cadde di fronte allo specchio dell’armadio, tra spasmi atroci, ed ebbe solo il tempo di vedere, alla languida luce delle ultime braci, il proprio volto sfigurato dalla morte, le proprie mani attanagliate alla propria gola. 



L’alba. Il sole irraggiò la sua vitalità sui campi e le colline attorno. La lama di luce trapassava nuovamente la fessura nell’imposta della camera da letto e, attraversando il pulviscolo sospeso nella stanza, si posava sui cuscini candidi. Il corpo di Michele giaceva ai piedi del letto, con le mani ancora strette alla gola; un rivolo di sangue usciva timido dalla bocca sul volto tumefatto. 

Dei passi sopraggiunsero dalla cucina. Un vecchio entrò nella stanza sorreggendosi col bastone. Guardò il cadavere. Tossì affannosamente nell’aspirare dalla pipa. Si voltò e vide il volume antico posato sul comodino. Lentamente si avvicinò e lo prese. Sussurrò parole incomprensibili, baciando il marchio blasfemo sulla copertina purpurea. Sfogliandolo notò il ripristino di una delle pagine strappate dal fondo del codice. Appoggiati bastone e libro sul letto, prese il cadavere rigido per le caviglie, e lo trascinò giù in cantina.

3 commenti:

  1. In questo universo parallelo regna la follia. E' un racconto non adatto ai più piccoli; un horror con cui ho partecipato ad un concorso senza vincere nulla. Mi sono divertito a gestire la storia, inserendo richiami agli incubi di Lovecraft e Poe. Spero almeno riesca a suscitare un po' di terrore...

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  2. Lo trovo ben scritto e gestito, come dici tu. Quando l'ho leggevo ero nella storia, non leggevo parole ma vedevo immagini e questo è quello che secondo me una buona scrittura deve fare. E' di sicuro un racconto horror, ho pensato all'incubo di Cogne...L'orrore è nell'essere inconsapevolmente colpevoli, privati di ogni autocontrollo...per alcuni questa è libertà e forse è per questo che i film e i racconti horror hanno successo. Io personalmente proprio per questo motivo non li amo molto.
    Anita

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  3. Sicuramente è più divertente scriverli che leggerli... forse ho esagerato un po'! Nel partecipare al contest di Halloween ho cercato di mettere dentro ad una storia tutto quello che penso faccia paura e, a rileggerlo, fa un po' sorridere l'ingenuità con cui ho farcito le vicende... sarà per la prossima!

    Comunque è un esercizio la scrittura. Non è detto debba sempre scrivere horror, ma un pizzico di suspence e terrore in un racconto non guasta... da questo scritto potrò forse attingere qualcosa...
    Nico

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