Benvenuti!

La piccola bottega di universi paralleli non vuole essere altro che il posto dove dare sfogo alla fantasia e alle visioni che la mente, a volte, scaturisce.
Personalmente scrivo storie, favole per i piccoli e per i meno giovani.
Sentitevi a casa vostra e curiosate pure ovunque; nel retro bottega troverete recensioni di film, libri, ma anche video e link sul mondo della fantascienza e dell'horror.

A chi abbia la volontà di sostare e leggermi, va il mio ringraziamento.
A chi vorrà aggiungere commenti o suggerimenti, la mia amicizia.

A tutti quanti il mio più cordiale benvenuto.

venerdì 29 ottobre 2010

Il marchio blasfemo

Niente, per un forestiero, è più triste di Londra immersa nella nebbia autunnale. 

Una nebbia pesante e fitta che si appiccica al mantello insinuandosi nei vestiti sotto e più in profondità fino a raggiungere l’anima; un senso d’impotenza, misto a timore riverenziale verso una cosa tanto grande d’avvolgere una città intera, costringe la vitalità delle persone a nascondersi e trovare riparo in qualche luogo inaccessibile del cuore. Solo i londinesi sembrano immuni a questa nostalgia: la nebbia scivola loro addosso senza sfiorarli nell’umore, sempre posato e altezzoso, mentre continuano a vivere tracannando birra scura e fumando tabacco aromatizzato al brandy. Gente civile, certamente, ma che porta dentro frammenti di un’atavica società barbara; lo si nota dal loro svolgere, in modo spartano e privo d’ogni motivazione più profonda, le azioni quotidiane. Mangiano per nutrirsi, lavorano per vivere, bevono per alleggerirsi la mente. 

Per un italiano è diverso. Abituato a dare un senso di ritualità ai gesti della giornata, questi hanno perso il grezzo senso primitivo. Mangiare diventa una cerimonia di socializzazione, fumare la pipa diventa un momento di riflessione e, una buona bottiglia di vino, non è tale se non la si condivide, con discussioni più o meno profonde, assieme ad un buon amico.


Per oltre sei mesi, Londra, era stata una ottima opportunità di lavoro per Michele Beccaria. 

Da buon piemontese, vivere in Inghilterra era una forzatura contro natura: rapporti con le persone, ritmi di lavoro e abitudini completamente differenti dalle sue. L’essere italiano, poi, non aiutava affatto l’integrazione con persone conservatrici ed egocentriche come gli inglesi. Isolato, suo malgrado, dalla vita mondana, si era buttato capofitto nel suo lavoro di traduttore nel British Museum. Solo tra le mura del museo, infatti, Michele trovava persone che lo stimavano e lo apprezzavano per come svolgeva le sue mansioni di analizzare e tradurre i moltissimi reperti egiziani, scoperti e importati in Inghilterra quasi un secolo prima, dall’illustrissimo connazionale Giovanni Belzoni. Un mestiere certosino e metodico il suo, che solo un buon conoscitore delle civiltà e delle lingue antiche, assodate da una lunga gavetta presso il museo delle antichità egizie di Torino, poteva compiere.

Arrivato sul finire della primavera, aveva trascorso la maggior parte del tempo rinchiuso nel suo laboratorio, tra scaffali di manufatti polverosi e persone alquanto noiose. Ma ora che il suo periodo di collaborazione con la Royal Archeological Institute si stava concludendo, sentiva d'avere dedicato troppo tempo al lavoro e troppo poco al conoscere la City. Così ultimamente si concedeva, nel tempo libero, lunghe passeggiate tra le vie e i parchi di una Londra che, scoprì, era unica per attrazioni turistiche e meraviglie architettoniche. Durante le sue camminate solitarie, pensava spesso alla moglie Nora e al figlioletto David rimasti a casa, nei sobborghi di Torino, per tutti i lunghi mesi del suo soggiorno a Londra; tanto gli mancavano e tanto avrebbe voluto rivederli, che scriveva loro una lettera ogni notte prima di dormire, e la spediva l’indomani. Immaginava spesso come David si sarebbe stupito nel vedere, durante il cambio della guardia, tanti soldati coi copricapo di pelliccia d’orso e la giubba rossa, o la meraviglia nei suoi occhi nel vedere il Tower Bridge in funzione coi suoi sbuffi di fumo nero e il cigolare degli argani. Sognava di far l’amore con Nora, di odorare la sua pelle sensuale e profumata, di baciare le sue labbra… ma anche di raccontarle il suo soggiorno, a dir il vero un po’ noioso, e i progressi che aveva contribuito a realizzare col suo operato. 



Una sera di ottobre, prossimo al suo ritorno in patria, stava compiendo una lunga camminata immerso nella nebbia inglese; sognava la sua casa immersa nelle campagne collinose e nei radi boschi di faggio e, mentre ogni viale di Londra gli ricordava le larghe vie del centro di Torino o il Buckingham Palace gli evocava il palazzo reale dei Savoia, fu distratto dai suoi pensieri da una piccola bottega di un rigattiere. 
Il negozio, davvero minuto, era come schiacciato dai palazzi a fianco; privo di qualsiasi esposizione o vetrina, aveva solo l’ingresso simile a quello di una delle tante case inglesi. Attirò la sua attenzione l’insegna in legno, anch’essa minuta, sulla quale era scritto in caratteri gotici: “Dark Shop”. 

Michele rimase per un po’ lì impalato, a contemplare quell’insegna e quella porta entrambe rovinate dal tempo e dallo smog. Poi, divertito dalla singolare iscrizione, decise d’entrare.

Chiusosi la porta alle spalle, e non vedendo nessuno al bancone, si tolse il cappello è salutò a voce alta: 

“Buonasera… c’è nessuno? Volevo solo dare un’occhiata in negozio: cercavo dei souvenir di Londra da portare a…”, ma interruppe la frase accorgendosi che nessuno lo stava ad ascoltare. Pensando che il bottegaio fosse sul retro o fosse uscito qualche minuto lasciando il negozio incustodito, nell’attesa che tornasse, si mise a curiosare tra la mercanzia in cerca di qualche oggetto interessante. 

L’aria nella bottega era densa e dolciastra, impregnata dall’odore dell’incenso che, in rivoli di fumo grigio, saliva lento da un braciere a lato della porta. L’illuminazione delle poche lampade a olio, rendeva difficile identificare i molti oggetti disposti disordinatamente su tavole improvvisate a banchi per l’esposizione. Eppure lì c’era davvero di tutto: teche con farfalle ed altri insetti morti esposti sotto vetro, vecchi cappelli laceri e ombrelli riparati alla meno peggio, lampade sbeccate e bugie in rame prive di candela, servizi da tè incompleti e pile di piatti decorati. Tra tutti gli articoli esposti, lo sguardo si posò su un libro dalla copertina rossa. Michele, visto che nella penombra non riusciva a distinguerne i dettagli o il titolo, decise di prenderlo in mano, facendo attenzione a non rovesciare una piccola colonna di tazze lì vicina. 

Doveva essere antico come volume, per la presenza dei nervi sulla costa della coperta in cuoio. Non c’era titolo ma, impresso esternamente, un marchio che raffigurava un blasfemia. Quel simbolo empio mise alquanto in imbarazzo Michele, fervido credente cristiano, ma lo incuriosì anche a procedere con lo sfogliare il libro. Le carte di guardia, immacolate da nessun segno d’usura, introducevano un fitto scritto onciale perlopiù in greco e in latino. Sporadici disegni esplicavano i contenuti del codice, in un turbinio di immagini macabre e sacrileghe. Alcune delle pagine iniziali erano strappate, come altre in fondo interrompevano drasticamente l’opera. Michele si soffermò a contemplare una rappresentazione di un omicidio, dove alla vittima veniva reciso il collo con un grosso coltello e il sangue che ne usciva veniva, grottescamente, raccolto in un bacile. Avvertì una presenza alle spalle. Si voltò di scatto nel vedere un'ombra di persona proiettata da una lampada. Appoggiata alla tavola delle teche con le farfalle, la figura lo stava scrutando da chissà quanto. Cercò di distinguerne il volto, ma la luce era talmente scarsa e posizionata sfavorevolmente che riuscì solo ad identificare dei tratti maschili.

“Non ho visto nessuno in bottega…” cercò di scusarsi Michele, “…così, nell’attesa del proprietario, mi sono messo a guardare la merce esposta.” disse con tono d’imbarazzo. Libro estremamente affascinante, non trova?” replicò incurante delle scuse dell’avventore l’uomo misterioso protetto dall’oscurità; poi, aspirando dalla pipa e tossendo vistosamente, aggiunse: “E’ un pezzo raro, di cui non è chiaro chi sia l’autore, ma ciò aggiunge mistero al suo fascino.



lunedì 18 ottobre 2010

Piccola bottega di universi paralleli

C’era una volta una piccola sonda spaziale che, lanciata per esplorare il cosmo, raggiunse tutti i pianeti attorno al Sole. Osservò le desolate lande rossastre di Marte, il gigantesco Giove percorso dal suo perenne uragano, Saturno e gli spettacolari anelli, Urano e Nettuno nascosti dalla loro atmosfera bluastra. Superata l’orbita di Plutone, diventò la prima sonda terrestre ad oltrepassare i confini del sistema solare.
Durante tutto il suo viaggio continuò ad inviare sulla Terra le foto e i dati di tutte le meraviglie che incontrava sul suo percorso. Un giorno però raggiunse una distanza tale da non riuscire più a comunicare con gli uomini che l’avevano creata.
Voyager, così si chiama la nostra sonda, proseguì in solitudine il suo viaggio nel vuoto dello spazio.
Il freddo interstellare congelò il metallo con cui era costruita mentre la luce del Sole, ormai un puntino lontano solo un po’ più luminoso delle altre stelle, era divenuta così flebile da non riuscire a caricare le batterie della sonda che, presto, si esaurirono completamente. In quel istante, Voyager, smise di funzionare.
Sospinta nel suo volo dalla forza inerziale impressagli il giorno del lancio, e incrementata strada facendo dalla gravità dei pianeti, continuò, sebbene ridotta ad un inutile ammasso metallico, il suo viaggio.
Percorse molti anni luce di distanza e, quando le ultime stelle dell’universo si spensero esaurite le loro riserve d’energia e tutto calò nel buio più profondo, Voyager continuava il suo percorso interminabile.
Per moltissimo tempo tutto fu null’altro che gelide tenebre.