Benvenuti!

La piccola bottega di universi paralleli non vuole essere altro che il posto dove dare sfogo alla fantasia e alle visioni che la mente, a volte, scaturisce.
Personalmente scrivo storie, favole per i piccoli e per i meno giovani.
Sentitevi a casa vostra e curiosate pure ovunque; nel retro bottega troverete recensioni di film, libri, ma anche video e link sul mondo della fantascienza e dell'horror.

A chi abbia la volontà di sostare e leggermi, va il mio ringraziamento.
A chi vorrà aggiungere commenti o suggerimenti, la mia amicizia.

A tutti quanti il mio più cordiale benvenuto.

martedì 4 gennaio 2011

Chicco e la fattoria

Chicco era un topino allegro e vivace con una morbida pelliccia grigia dalla quale spuntavano le esili zampette rosa.

Correva veloce, zampettando qua e la, annusando l'aria sempre alla ricerca di qualcosa da mangiare. Abitava nei pressi della vecchia fattoria di Giorgione, un alto e robusto contadino
con un grosso naso tutto rosso e un cappello di paglia sempre in testa.
Chicco, durante le esplorazioni nella stalla della fattoria, prestava attenzione ad ogni più piccolo rumore. Il caldo respiro affannato delle mucche, il frusciante scuoter la testa dei cavalli; ciò che cercava di udire prima di una possibile aggressione erano però i fruscii del giovane gatto Tommaso, ma non era affatto facile sentirli! 
Tommaso se ne stava tutto il giorno accovacciato al calduccio davanti la finestra di fronte alle mucche, ma non appena s'accorgeva della presenza in stalla di un topo raddrizzava le orecchie e, di soppiatto, strisciava dentro qualche mucchio di fieno o dietro qualche sacco di mangime, nel tentativo di catturare con un balzo fulmineo il malcapitato topino. Chicco sapeva bene che un attimo di distrazione, un'esitazione alla fuga e... zac! avrebbe potuto cadere fatalmente tra le grinfie di Tommaso.
Quel gattaccio d'altronde faceva il suo dovere, messo di guardia alla stalla aveva l'ordine tassativo di tenere alla larga gli intrusi. A Giorgione e sua moglie, una signora sempre indaffarata nelle pulizie e nell'ordine della casa, i topi non stavano proprio simpatici! Sotto il divano, sotto ogni comodino, sotto il letto e ogni armadio o mobile di casa, erano piazzati cartoncini con la colla che fungevano da trappole per i piccoli roditori talmente
sprovveduti da entrare in casa. Eppure Chicco s'accontentava di cibo di poco conto: alcuni chicchi di grano dispersi in qualche angolo della stalla o una briciola caduta sul pavimento della cucina diventavano per lui splendidi banchetti, più che sufficienti a soddisfarne l'appetito.
Neanche gli altri animali si dimostravano tolleranti con Chicco. Sebbene avesse evitato in tutti i modi di dar loro fastidio, disinteressandosi alla loro mangiatoia, doveva sempre stare alla larga dai colpi di coda delle mucche, dal becco delle galline e dagli zoccoli dei cavalli che, infastiditi, cercavano di colpirlo durante le sue esplorazioni in stalla. Solo il maiale, relegato in un piccolo recinto tutto suo, si limitava in presenza del topo a grugnire indispettito per poi tornare ad abbuffarsi nella mangiatoia, senza prestargli ulteriore attenzione: ma nel porcile tutto era sporco e maleodorante, quindi Chicco evitava il più possibile d'andarci.

Un giorno tiepido d'autunno Chicco, entrato nella stalla di soppiatto sotto la grande porta, si guardava attorno muovendo le grandi orecchie a destra e a sinistra. Sulla finestra di fronte alle mucche non c'era Tommaso; lo avrà sicuramente visto entrare e si sarà nascosto in qualche angolo buio per tendere un’imboscata al malcapitato topino! Un brivido gelido attraversò Chicco lungo tutto il dorso fino alla punta della codina rosa e, intimorito dal pensiero del felino in agguato, indietreggiò uscendo all’aperto il più velocemente possibile. Era meglio evitare la stalla poiché, se Tommaso non stava sonnecchiando al solito posto, significava era sveglio e pronto a cacciare. Una capatina in casa di Giorgione si sarebbe potuta rivelare un’imprudenza pericolosa, è
vero, ma in quelle circostanze sembrava l'unica possibilità di rimediare qualche briciola.

venerdì 29 ottobre 2010

Il marchio blasfemo

Niente, per un forestiero, è più triste di Londra immersa nella nebbia autunnale. 

Una nebbia pesante e fitta che si appiccica al mantello insinuandosi nei vestiti sotto e più in profondità fino a raggiungere l’anima; un senso d’impotenza, misto a timore riverenziale verso una cosa tanto grande d’avvolgere una città intera, costringe la vitalità delle persone a nascondersi e trovare riparo in qualche luogo inaccessibile del cuore. Solo i londinesi sembrano immuni a questa nostalgia: la nebbia scivola loro addosso senza sfiorarli nell’umore, sempre posato e altezzoso, mentre continuano a vivere tracannando birra scura e fumando tabacco aromatizzato al brandy. Gente civile, certamente, ma che porta dentro frammenti di un’atavica società barbara; lo si nota dal loro svolgere, in modo spartano e privo d’ogni motivazione più profonda, le azioni quotidiane. Mangiano per nutrirsi, lavorano per vivere, bevono per alleggerirsi la mente. 

Per un italiano è diverso. Abituato a dare un senso di ritualità ai gesti della giornata, questi hanno perso il grezzo senso primitivo. Mangiare diventa una cerimonia di socializzazione, fumare la pipa diventa un momento di riflessione e, una buona bottiglia di vino, non è tale se non la si condivide, con discussioni più o meno profonde, assieme ad un buon amico.


Per oltre sei mesi, Londra, era stata una ottima opportunità di lavoro per Michele Beccaria. 

Da buon piemontese, vivere in Inghilterra era una forzatura contro natura: rapporti con le persone, ritmi di lavoro e abitudini completamente differenti dalle sue. L’essere italiano, poi, non aiutava affatto l’integrazione con persone conservatrici ed egocentriche come gli inglesi. Isolato, suo malgrado, dalla vita mondana, si era buttato capofitto nel suo lavoro di traduttore nel British Museum. Solo tra le mura del museo, infatti, Michele trovava persone che lo stimavano e lo apprezzavano per come svolgeva le sue mansioni di analizzare e tradurre i moltissimi reperti egiziani, scoperti e importati in Inghilterra quasi un secolo prima, dall’illustrissimo connazionale Giovanni Belzoni. Un mestiere certosino e metodico il suo, che solo un buon conoscitore delle civiltà e delle lingue antiche, assodate da una lunga gavetta presso il museo delle antichità egizie di Torino, poteva compiere.

Arrivato sul finire della primavera, aveva trascorso la maggior parte del tempo rinchiuso nel suo laboratorio, tra scaffali di manufatti polverosi e persone alquanto noiose. Ma ora che il suo periodo di collaborazione con la Royal Archeological Institute si stava concludendo, sentiva d'avere dedicato troppo tempo al lavoro e troppo poco al conoscere la City. Così ultimamente si concedeva, nel tempo libero, lunghe passeggiate tra le vie e i parchi di una Londra che, scoprì, era unica per attrazioni turistiche e meraviglie architettoniche. Durante le sue camminate solitarie, pensava spesso alla moglie Nora e al figlioletto David rimasti a casa, nei sobborghi di Torino, per tutti i lunghi mesi del suo soggiorno a Londra; tanto gli mancavano e tanto avrebbe voluto rivederli, che scriveva loro una lettera ogni notte prima di dormire, e la spediva l’indomani. Immaginava spesso come David si sarebbe stupito nel vedere, durante il cambio della guardia, tanti soldati coi copricapo di pelliccia d’orso e la giubba rossa, o la meraviglia nei suoi occhi nel vedere il Tower Bridge in funzione coi suoi sbuffi di fumo nero e il cigolare degli argani. Sognava di far l’amore con Nora, di odorare la sua pelle sensuale e profumata, di baciare le sue labbra… ma anche di raccontarle il suo soggiorno, a dir il vero un po’ noioso, e i progressi che aveva contribuito a realizzare col suo operato. 



Una sera di ottobre, prossimo al suo ritorno in patria, stava compiendo una lunga camminata immerso nella nebbia inglese; sognava la sua casa immersa nelle campagne collinose e nei radi boschi di faggio e, mentre ogni viale di Londra gli ricordava le larghe vie del centro di Torino o il Buckingham Palace gli evocava il palazzo reale dei Savoia, fu distratto dai suoi pensieri da una piccola bottega di un rigattiere. 
Il negozio, davvero minuto, era come schiacciato dai palazzi a fianco; privo di qualsiasi esposizione o vetrina, aveva solo l’ingresso simile a quello di una delle tante case inglesi. Attirò la sua attenzione l’insegna in legno, anch’essa minuta, sulla quale era scritto in caratteri gotici: “Dark Shop”. 

Michele rimase per un po’ lì impalato, a contemplare quell’insegna e quella porta entrambe rovinate dal tempo e dallo smog. Poi, divertito dalla singolare iscrizione, decise d’entrare.

Chiusosi la porta alle spalle, e non vedendo nessuno al bancone, si tolse il cappello è salutò a voce alta: 

“Buonasera… c’è nessuno? Volevo solo dare un’occhiata in negozio: cercavo dei souvenir di Londra da portare a…”, ma interruppe la frase accorgendosi che nessuno lo stava ad ascoltare. Pensando che il bottegaio fosse sul retro o fosse uscito qualche minuto lasciando il negozio incustodito, nell’attesa che tornasse, si mise a curiosare tra la mercanzia in cerca di qualche oggetto interessante. 

L’aria nella bottega era densa e dolciastra, impregnata dall’odore dell’incenso che, in rivoli di fumo grigio, saliva lento da un braciere a lato della porta. L’illuminazione delle poche lampade a olio, rendeva difficile identificare i molti oggetti disposti disordinatamente su tavole improvvisate a banchi per l’esposizione. Eppure lì c’era davvero di tutto: teche con farfalle ed altri insetti morti esposti sotto vetro, vecchi cappelli laceri e ombrelli riparati alla meno peggio, lampade sbeccate e bugie in rame prive di candela, servizi da tè incompleti e pile di piatti decorati. Tra tutti gli articoli esposti, lo sguardo si posò su un libro dalla copertina rossa. Michele, visto che nella penombra non riusciva a distinguerne i dettagli o il titolo, decise di prenderlo in mano, facendo attenzione a non rovesciare una piccola colonna di tazze lì vicina. 

Doveva essere antico come volume, per la presenza dei nervi sulla costa della coperta in cuoio. Non c’era titolo ma, impresso esternamente, un marchio che raffigurava un blasfemia. Quel simbolo empio mise alquanto in imbarazzo Michele, fervido credente cristiano, ma lo incuriosì anche a procedere con lo sfogliare il libro. Le carte di guardia, immacolate da nessun segno d’usura, introducevano un fitto scritto onciale perlopiù in greco e in latino. Sporadici disegni esplicavano i contenuti del codice, in un turbinio di immagini macabre e sacrileghe. Alcune delle pagine iniziali erano strappate, come altre in fondo interrompevano drasticamente l’opera. Michele si soffermò a contemplare una rappresentazione di un omicidio, dove alla vittima veniva reciso il collo con un grosso coltello e il sangue che ne usciva veniva, grottescamente, raccolto in un bacile. Avvertì una presenza alle spalle. Si voltò di scatto nel vedere un'ombra di persona proiettata da una lampada. Appoggiata alla tavola delle teche con le farfalle, la figura lo stava scrutando da chissà quanto. Cercò di distinguerne il volto, ma la luce era talmente scarsa e posizionata sfavorevolmente che riuscì solo ad identificare dei tratti maschili.

“Non ho visto nessuno in bottega…” cercò di scusarsi Michele, “…così, nell’attesa del proprietario, mi sono messo a guardare la merce esposta.” disse con tono d’imbarazzo. Libro estremamente affascinante, non trova?” replicò incurante delle scuse dell’avventore l’uomo misterioso protetto dall’oscurità; poi, aspirando dalla pipa e tossendo vistosamente, aggiunse: “E’ un pezzo raro, di cui non è chiaro chi sia l’autore, ma ciò aggiunge mistero al suo fascino.



lunedì 18 ottobre 2010

Piccola bottega di universi paralleli

C’era una volta una piccola sonda spaziale che, lanciata per esplorare il cosmo, raggiunse tutti i pianeti attorno al Sole. Osservò le desolate lande rossastre di Marte, il gigantesco Giove percorso dal suo perenne uragano, Saturno e gli spettacolari anelli, Urano e Nettuno nascosti dalla loro atmosfera bluastra. Superata l’orbita di Plutone, diventò la prima sonda terrestre ad oltrepassare i confini del sistema solare.
Durante tutto il suo viaggio continuò ad inviare sulla Terra le foto e i dati di tutte le meraviglie che incontrava sul suo percorso. Un giorno però raggiunse una distanza tale da non riuscire più a comunicare con gli uomini che l’avevano creata.
Voyager, così si chiama la nostra sonda, proseguì in solitudine il suo viaggio nel vuoto dello spazio.
Il freddo interstellare congelò il metallo con cui era costruita mentre la luce del Sole, ormai un puntino lontano solo un po’ più luminoso delle altre stelle, era divenuta così flebile da non riuscire a caricare le batterie della sonda che, presto, si esaurirono completamente. In quel istante, Voyager, smise di funzionare.
Sospinta nel suo volo dalla forza inerziale impressagli il giorno del lancio, e incrementata strada facendo dalla gravità dei pianeti, continuò, sebbene ridotta ad un inutile ammasso metallico, il suo viaggio.
Percorse molti anni luce di distanza e, quando le ultime stelle dell’universo si spensero esaurite le loro riserve d’energia e tutto calò nel buio più profondo, Voyager continuava il suo percorso interminabile.
Per moltissimo tempo tutto fu null’altro che gelide tenebre.